“OUT, Per un ritratto collettivo della cura” intervista a Giuditta Pellegrini

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OUT, Per un ritratto collettivo della cura, è il nuovo progetto fotografico di Giuditta Pellegrini, con la collaborazione di Francesca Ascione. Ne parliamo con Giuditta, fotografa, giornalista e videomaker, attivista per l’ambiente e femminista.

Come è nato questo progetto?

È nato per restituire complessità in questo momento di crisi sanitaria e sociale. Consiste in una serie di ritratti, in particolare di persone impegnate nella trasformazione sociale. Le foto saranno accompagnate da una testimonianza in cui le persone ritratte esprimono cosa significa per loro la cura in senso allargato. Da questa verrà estrapolata una parola chiave, che verrà cucita sul  ritratto, sul corpo fotografico, dall’artista Francesca Ascione.

Lavoro spesso in questo modo, con i ritratti uniti al testo. La prima cosa che mi viene da fare in momenti critici, è uscire fuori e chiedere alla gente come sta vivendo il momento. Il volto umano ci riporta al confronto al di là di ogni filtro imposto. È un modo per riconquistare la dimensione umana che in questo momento storico è messa a dura prova. Questo progetto non vuole dare risposte, è solo un archivio di testimonianze umane. Per comprendere che, per quanto una realtà sia diversa dalla nostra, per noi incomprensibile e a volte anche indigesta, non possiamo giudicarla.

Ph: Giuditta Pellegrini

Perché nel titolo usate la parola OUT?

Perché il fuori è lo spazio più democratico, quello dove possiamo incontrarci.
Ma OUT anche per il potere di un volto di fare coming out e di imporre la propria identità al di là di ciò che è considerato conforme. E infine OUT anche come corpo non riconosciuto e discriminato dalla società.

Nel concetto di cura è racchiuso anche un messaggio di cura per l’ambiente?

Noi siamo l’ambiente, se l’ambiente è malsano non possiamo essere sani né felici.  La natura ci insegna che la ricchezza è nella diversità, nella complessità appunto. I problemi nascono quando vogliamo imporre a tutti i luoghi e le persone una sola soluzione, in quella che Vandana Shiva chiama la “monocoltura della mente”: non possiamo pensare di risolvere i problemi ambientali, climatici, sanitari imponendo a tutti la stessa soluzione. Dobbiamo andare oltre e trovare soluzioni più radicali, perché mettere delle toppe non ci aiuterà.

Come giornalista e fotografa, ti sei occupata delle lotte sociali e per la tutela sociale?

Mi occupo da 15 anni di movimenti ambientalisti. Già 10 anni fa in Val di Susa ho iniziato a raccontare i movimenti No Tav. Ultimamente ho seguito un po’ la battaglia contro il polo logistico di Altedo, che voleva eliminare l’ultima risaia. Credo nell’importanza delle lotte e la rappresentazione delle lotte. In India ho fotografato il Festival della Biodiversità, ho seguito i carri dei contadini nei villaggi poverissimi, che ci accoglievano con grande gioia.  Credo molto nei movimenti di Extinction Rebellion e FFF. Sono legata al tema delle donne e del mondo LGBTQi, non a caso nel mio lavoro predomina l’aspetto femminile.

Qual è secondo te il ruolo della fotografia in un momento così critico?

Siamo in un momento in cui il dialogo è molto difficile tra le persone, a livello intellettuale. La realtà che ci circonda, dai cambiamenti climatici alla crisi sanitaria e la sua gestione, al crescente controllo sociale, ci stanno mettendo di fronte a temi molto importanti, viscerali, come la vita e la morte, la cura e la scelta della cura, e le emozioni a volte essi scaturiscono in maniera irruenta. Ma dobbiamo affrontarli, cercando però altri modi di comunicare e colpire l’immaginario. La fotografia è uno di questi modi. La fotografia interrompe il flusso dell’intelletto, ci permette di mandare un messaggio diretto. Io credo che in questo momento dobbiamo andare oltre le divisioni e lanciare un’ancora che ci porti oltre, in un terreno comune in cui è possibile iniziare a ricostruire.