Alpi e cambiamenti climatici, la nuova sfida per comunicare l’alta quota

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A guardare verso nord, la catena delle Alpi è ora più bianca che mai: è scesa tantissima neve da dicembre ad oggi e questo sembra un anno fortunato per gli amanti dello sci.

Eppure il magazine americano Time, in una recente inchiesta, lancia l’allarme, dichiarando che la stagione invernale alpina, dal 1960 ad oggi, si è accorciata di un mese.

Non è il solo, perché un gruppo di ricercatori svizzeri, dall’Institute for Snow and Avalanche Research (SLF), ci avverte che entro il 2100 la copertura nevosa dell’arco alpino diminuirà dal 30 al 70 per cento, a seconda che vengano attuate o meno le misure per non superare l’aumento della temperatura globale di 2° C.

Come se non bastasse, Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico, prevede che per il 2050 il 90% del ghiaccio presente sulle Alpi sarà scomparso, lasciando spazio a instabili vette fatte di pietre.

Ma perché tanta attenzione sulle Alpi e che relazione hanno con i cambiamenti climatici?

L’ambiente alpino rappresenta un laboratorio per il monitoraggio del cambiamento climatico: piccole variazioni impercettibili in pianura, in montagna possono avere un grande impatto ambientale, perché in una ristretta area geografica, al cambiare di quota, sono presenti ecosistemi differenti.

Ma sono i ghiacciai alpini i più preziosi indicatori, data la loro sensibilità alla variazione di clima: ogni anno arretrano le fronti glaciali, aumentano i crepacci, si formano depressioni. Per questo le Alpi sono da considerarsi un patrimonio naturale per elaborare nuove strategie volte a ripensare la relazione uomo-ambiente.

Ripensare la montagna

Ripensare l’ambiente alpino in modo lungimirante, senza illudersi per un anno di fortunate nevicate, significa anche chiedersi se abbia senso che molte località montane continuino a far dipendere la propria economia dal turismo sciistico, con lo sviluppo di impianti di risalita di ultima generazione, la costruzione di bacini per i cannoni da neve, per sopperire alla mancanza di neve con l’innevamento artificiale e prolungare la stagione sciistica. Tutte attività che hanno costi in termini ambientali ed esercitano una forte pressione sulle risorse idriche. Se poi pensiamo che la stima degli esperti, con i cambiamenti in atto, è che le stazioni sciistiche al di sotto dei 1.800 metri non avranno futuro, che ne sarà degli impianti dismessi?

Come se non bastasse, si assiste a un progressivo intensificarsi degli eventi climatici estremi, come “bombe di neve”; periodi di prolungata siccità, con ripercussioni dirette sui bacini fluviali; fusione precoce del manto nevoso, con aumento della frequenza di valanghe e frane.

In altre parole, si fa necessario progettare un approccio sostenibile al turismo montano, che passi attraverso una comunicazione diversificata delle attività e del periodo di fruizione: escursionismo, trekking, enogastronomia, turismo estivo, mountain bike, torrentismo, turismo culturale, recupero degli alpeggi, equitazione o agriturismo devono essere in grado di restituire un’immagine per vivere e amare la montagna in diversi momenti dell’anno.

Si tratta di una sfida che non possiamo mancare, non tanto perché viene messa in discussione la settimana bianca, ma perché quello che è in gioco è il nostro patrimonio ambientale montano. La strada da percorrere quindi è quella della messa in atto di pratiche di gestione realmente sostenibili e lungimiranti, che tengano conto del fatto che in futuro ci sarà sempre meno neve e le riserve idriche saranno sempre più scarse.

Stefania Villa

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