Comunicazione non convenzionale: la campagna di Greenpeace contro la plastica monouso

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Greenpeace da alcuni anni ha lanciato una campagna sull’inquinamento da plastica nei mari del pianeta, problema con numeri che sono giorno dopo giorno sempre più allarmanti. Secondo alcune stime, ogni minuto l’equivalente di un camion finisce nei mari del pianeta.

Abbiamo parlato con Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, per approfondire il problema della plastica monouso e comprendere come, tra attivismo e forme di comunicazione non convenzionale, si possa arginare il problema del marine litter.

La campagna di Greenpeace si concentra sulla plastica monouso, per quali ragioni?

Innanzitutto perché questa tipologia di plastica oggi rappresenta il 40% della produzione di plastica globale.

Il concetto di plastica monouso è un po’ assurdo perché la plastica nasce come materiale principalmente resistente e durevole ma questo 40% si usa per applicazioni che vanno da pochi secondi ad alcuni minuti. Basta pensare a una cannuccia o a una bottiglietta d’acqua.

D’altro canto però i lunghissimi tempi di degradazione, laddove ci troviamo di fronte a uno scorretto smaltimento, diventano un enorme problema ambientale. Quindi un oggetto, quasi insignificante nelle nostre mani, come una cannuccia o una bottiglietta, può avere un impatto devastante sugli ecosistemi naturali.

É per questo motivo, quindi, che la vostra campagna si rivolge alle aziende produttrici. Per cercare di ridurre gli impatti alla fonte?

Esatto, la produzione di plastica è cresciuta in modo incredibile negli ultimi decenni ed è destinata a crescere anche negli anni a venire. I volumi del 2015 saranno raddoppiati entro il 2025 per essere quadruplicati entro il 2050. Se già oggi vediamo che i nostri mari e le creature che vi risiedono soffocano dalla plastica, non oso immaginare cosa potrà succedere nei decenni a venire.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una crescita esponenziale nell’uso di imballaggi monouso. Questo modello di consumo ci è stato imposto dalle multinazionali degli alimenti e delle bevande, ovvero chi immette sul mercato i più grandi volumi di plastica usa e getta, è qui la vera radice del problema. È proprio qui che vogliamo intervenire chiedendo alle grandi aziende Coca Cola, Nestlé, Pepsi (c’è una lunga lista sulla pagina della petizione) di ridurre la produzione di plastica monouso e investire su sistemi alternativi di consegna. Se andiamo in un supermercato vediamo che i prodotti ci vengono consegnati in un solo modo, ma in realtà non è sempre stato così e non deve essere per forza solo così.

 Il riciclo non sembra per voi sufficiente per arginare il problema.

Bisogna cambiare questo paradigma partendo dal fatto che il riciclo, più volte invocato come soluzione, non basta. Non basta perché i numeri lo smentiscono. Se facciamo un’analisi di tutta la plastica prodotta e immessa al consumo a partire dagli anni ’50, oltre il 90% non è mai stato riciclato, numeri impietosi. Se circoscriviamo questa analisi a dati più recenti e basati sul sistema Italia, paese anche abbastanza virtuoso da questo punto di vista, vediamo che di tutti gli imballaggi che derivano da una corretta raccolta differenziata domestica, frutto di una lodevole azione, poco più del 40% viene correttamente riciclata, il resto o va a finire in discarica o negli inceneritori. Se oggi su scala globale ricicliamo meno del 20% con una produzione che cresce a un ritmo così forte, il riciclo deve crescere di dieci volte tanto, ma è improbabile.

L’approvazione della direttiva sulle plastiche monouso sembra essere un primo passo a livello comunitario per la transizione che Greenpeace propone. Quali i limiti a vostro avviso?

Dall’Europa arriva un segnale importante, vietando dal commercio alcuni oggetti in plastica particolarmente problematici ai fini del riciclo. Tuttavia però non è risolutiva, perché a nostro avviso non interviene in modo importante su alcuni oggetti particolarmente problematici.

Per i bicchieri ed i contenitori per alimenti ad ogni Stato viene dato mano libera di decidere un target di riduzione a partire dal 2026.

Per quanto riguarda le bottiglie di plastica invece, rispetto alla proposta è stato posticipato, dal 2025 al 2029, l’obbligo di raccogliere separatamente il 90% delle bottiglie, con un target intermedio al 77%. Su questo bisognerebbe accelerare, a nostro avviso. Considerando la situazione in Italia, dove vengono consumate grandissime quantità di acqua minerale l’augurio è che nel recepimento della Direttiva si investa pesantemente su un sistema di raccolta efficiente delle bottiglie attingendo a quei sistemi già in voga in altre nazioni europee, come quello del deposito su cauzione che nei paesi scandinavi o in Germania funzionano molto bene.

In qualche modo la normativa europea, con questo ritardo sulle bottiglie e non fissando dei target di riduzione comunitari sui contenitori per gli alimenti regala alle multinazionali ancora del tempo per continuare nel business tradizionale.

Il Ministero dell’Ambiente ha lanciato la campagna Plastic Free. L’Italia in questo contesto come si sta muovendo?

Ben vengano iniziative come quelle del Ministro Costa della Plastic Free Challenge. Certo è che se il Ministro ha come obiettivo quello di togliere la plastica in dieci palazzi ministeriali mi sembra molto poco ambizioso. Noi ci aspettavamo da mesi la presentazione in Parlamento della Direttiva “Salva Mare” che colma delle lacune normative, ma servono delle misure anche sulla riduzione. In più sembra esserci contraddizione tra quello che dice il nostro Ministro e quelle che sono le indicazioni a livello comunitario.

La Direttiva sulla Plastica Monouso fa un’assunzione importante e che ci trova molto concordi: indipendentemente dal materiale d’origine, bioplastiche e plastiche compostabili hanno un comportamento analogo alla plastica tradizionale e sono quindi equiparabili, non rappresentando un’alternativa.

In Italia, considerando le recenti dichiarazioni pubbliche del Ministro Costa, sembra esserci la volontà, ed è un caso unico in Europa, di voler spingere su queste alternative. Bisogna capire dove andare, perché a nostro avviso c’è un bisogno urgente di ridurre il monouso, non è una semplice questione di spostare il focus da un materiale all’altro.

Da considerare inoltre che la sostituzione di plastiche tradizionali con plastiche biodegradabili e compostabili creerebbe comunque un’enorme pressione sugli ecosistemi per la necessità di coltivare terre con il fine di produrre imballaggi, questo sarebbe un controsenso considerando la finitezza delle risorse naturali

Infine riteniamo che il concetto del riutilizzo sia stato poco approfondito e meriti di essere esplorato. Recentemente Carrefour Francia, come già Tesco in Inghilterra, ha dato la possibilità ai propri clienti di servirsi nel banco gastronomia portandosi il contenitore da casa. Se lo fanno giganti di questo tipo si può fare dappertutto.

Greenpeace si è sempre contraddistinta costruendo le proprie campagne su attivismo e forme di azione non convenzionale. Quali sono le prime iniziative che hanno caratterizzato questa campagna?

Lo scorso anno abbiamo speso gran parte delle nostre risorse sulla questione della responsabilità, cercando di comunicare alle persone che non è solo colpa del singolo. Il marine litter non è solo un problema individuale, ma è un problema legato al modello di consumo e di alternative che ci mancano.

Insieme a Break Free from Plastic, coalizione internazionale di oltre 1.400 organizzazioni, abbiamo effettuato su scala globale delle operazioni di pulizia dei litorali che chiamiamo Brand Audit. Organizziamo operazioni di raccolta e catalogazione di tutti i rifiuti presenti sul litorale. Li separiamo per tipologia di plastica, riconosciamo se è usa e getta o no, capiamo che tipo di imballaggi sono e successivamente andiamo a individuare il marchio di appartenenza.

L’anno scorso abbiamo pubblicato un report che conteneva i dati degli audit di centinaia di operazioni di pulizia fatti in tutto il mondo e abbiamo trovato che i prodotti più presenti erano riconducibili alle aziende a cui chiediamo di cambiare: Coca Cola, Nestlé, Unilever e così via.

Quale invece l’evoluzione della campagna?

Adesso stiamo utilizzando le nostre navi per un tour planetario che toccherà diverse aree del pianeta e in questo momento siamo nelle Filippine. Nel sud est asiatico il problema si vive nella maggiore drammaticità, con immagini che sono veramente un pugno nello stomaco. In aree ad altissima biodiversità, abbiamo trovato plastica usa e getta riconducibili ai soliti grandi marchi. Successivamente questo tour dovrebbe arrivare anche in Europa. Non posso darti tanti dettagli ma l’obiettivo sarà usare le nostre navi per esporre ancora di più il problema.

La scorsa estate in Italia avete lanciato Plastic Radar. Con un messaggio su WhatsApp le persone potevano segnalare la presenza di rifiuti in plastica lungo i litorali italiani. Come è andata questa azione?

Plastic Radar è stata un’iniziativa di enorme successo lo scorso anno, anche inatteso. Era uno strumento molto semplice che raggiungeva capillarmente ogni singola persona e i numeri della partecipazione sono stati veramente elevati. Con Plastic Radar, tramite la segnalazione fotografica, chiedevamo una foto fatta in modo tale da ottenere le stesse informazioni chiave che otteniamo dai brand audit.

Cosa è emerso dai dati raccolti?

Le bottiglie sono la tipologia di rifiuti più segnalata sulle spiagge italiane e i marchi segnalati sono sempre i soliti. In Italia compaiono San Benedetto e Ferrero, insieme a Nestlé, Coca Cola etc. Per la tipologia di rifiuti presenti la situazione è molto simile a quella internazionale, ovviamente non per quantità.  L’anno scorso abbiamo avuto più di 3.000 partecipanti, e quasi 6.800 segnalazioni.

Lo scorso anno al Pantheon avete portato un’installazione artistica di due grandi balene che emergono da un mare pieno di plastica. Quest’anno al Carnevale di Viareggio era presente un carro con una balena che affoga nella plastica. Queste azioni rappresentano un classico esempio dell’espressione di comunicazione non convenzionale di Greenpeace. Quanto queste iniziative possono contribuire a sensibilizzare le persone?

È difficile misurarlo in termini assoluti, però degli indicatori si possono avere.

Innanzitutto, sfruttare l’elemento balena in chiave comunicativa è fortissimo ed è un simbolo storico di Greenpeace. Inoltre, queste enormi creature marine sono quelle che pagano il prezzo più elevato dell’inquinamento da plastica in quanto la ingeriscono erroneamente morendo per soffocamento.

L’installazione davanti al Pantheon nasce dalla volontà di portare in un luogo iconico uno dei problemi che affliggono i nostri mari. Le foto hanno fatto il giro del mondo e sono finite, ad esempio, sui social media dell’Economist, rivista che sicuramente non ha l’ambiente tra i suoi temi chiave.

Lo stesso discorso vale per il Carnevale di Viareggio. Tutto è partito dalle balene al Pantheon, l’artista Roberto Vannucci ci ha contattato e ha detto “Vorrei replicare quello che ho visto al Pantheon con dimensioni ancora più grandi”. Il video su Facebook ha superato il milione di visualizzazioni, ma è finito anche su TV estere come quella polacca e ha girato mezzo mondo. Essendo una manifestazione pubblica, ci sono video amatoriali che hanno fatto migliaia e migliaia di visualizzazioni. Sono numeri alti, per chi mastica i social è veramente un risultato importante.

 

Tra le varie iniziative portate avanti da Greenpeace è stata lanciata una petizione per invitare alcune multinazionali a ridurre la commercializzazione di plastica monouso. Come sta andando?

La petizione a livello globale ha raccolto oltre 3 milioni di firme in poco più di anno. Sono numeri veramente alti, è sicuramente una di quelle con le migliori performance nella storia di Greenpeace Italia considerando inoltre che utilizziamo un sistema di petizioni che si appoggia ai nostri canali e non usiamo piattaforme esterne

Avete già visto dei risultati o almeno un segnale che qualcosa stia cambiando?

Qualcosa lo abbiamo percepito. Il “wording” delle aziende è cambiato. Mentre fino a 6 – 8 mesi fa il riciclo era la panacea di tutti i mali ora, invece, qualcuno inizia a parlare in modo aperto di riduzione.  Da parte nostra chiediamo dei programmi trasparenti e una timeline credibile per ogni impegno preso.

Le grandi multinazionali che hanno aderito alla New Plastic Economy della Ellen MacArthur Foundation stanno lavorando alacremente e si stanno allineando anche nel linguaggio alle modalità utilizzate da Greenpeace.  

Abbiamo redatto un report basato su un questionario somministrato a 11 grande aziende degli alimenti e delle bevande che si chiama “Una crisi di convenienza”. Tutte queste aziende, da Coca Cola a Pepsi, non ci hanno fornito o meglio non conoscevano – questo non ci è dato saperlo – quanta plastica monouso immettevano sul mercato.

Adesso invece molte delle aziende che fanno parte della Ellen MacArthur Foundation stanno rendendo pubblici questi dati. Credo che anche questo risultato possa essere figlio della nostra pressione in quanto non è possibile che un’azienda non sappia quanta plastica monouso produce in un anno, o almeno quante bottiglie vende su scala globale.

Qualcuna verosimilmente andrà verso target di riduzione, come sempre succede ci sono aziende più progressiste e altre meno. Bisognerà capire chi deciderà di fare da front runner in questa battaglia perché è verosimile e credo che ci siano tutti i segnali che nei prossimi 20- 30 anni la plastica subirà la stessa gogna che ha subito il tabacco.

Chi produce non può riversare tutte le responsabilità sul consumatore non dandogli alternative, devono esserci meccanismi di EPR (Extended Producer Responsibility n.d.r.) stringenti. Le aziende sono consapevoli di essere responsabili del problema, non possono continuare a fare solo business incuranti di quello che poi succede ai loro prodotti a fine vita.

In conclusione ti chiedo un parere personale, in base alla tua esperienza, su quanto la comunicazione sia cambiata con l’avvento dei social network. Quali sono a tuo avviso i limiti e le opportunità di questi strumenti?

Il modo di fare campagna è cambiato radicalmente da quando sono subentrati i social network. Da una parte sicuramente il web offre delle opportunità incredibili perché ti consente di raggiungere un numero di persone davvero elevato, d’altra parte, ti costringe a fare una comunicazione di natura più superficiale.

La plastica è un tema che riscuote un consenso unanime indipendentemente dall’attitudine ambientalista che c’è in ognuno di noi. Affrontare altre tematiche può essere più complicato. Siamo in una società che legge e si documenta sempre di meno, in un post social le prime tre parole sono fondamentali in quanto molti si limitano a leggere solo queste. Il numero di caratteri limitato, la superficialità della lettura causata dalla rapidità con cui si scorrono le notizie può dare luogo a fraintendimenti e questo diventa un forte limite.

Di Jacopo Fresta

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