Il dramma e la lotta contro l’amianto tra cinema e web

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di Eleonora Anello

3000 morti, tra ex operai e semplici cittadini. 20 anni di reclusione a testa chiesti dal pubblico ministero Raffaele Guariniello a carico degli alti dirigenti della multinazionale Eternit, accusata di “disastro doloso e omissione di misure di sicurezza e di cautele”. Tragica vicenda di uno dei più grandi crimini ambientali ad opera di un’industria che sapeva ma in nome del profitto ha taciuto.

A chi come noi si occupa quotidianamente di comunicazione ambientale, hanno molto colpito il fervore e la coesione sociale manifestatesi, dopo 30 anni di silenzio, tra la popolazione delle zone colpite.

Nell’intensa voglia di giustizia che serpeggia tra l’opinione pubblica, l’arte, nelle sue varie forme, ha voluto perorare la causa, soprattutto da quando si è avuta la certezza che sono coinvolte, e lo saranno ancora per molto, vittime civili, persone cioè che in via Oggero 63, la sede casalese dell’Eternit, non hanno mai messo piede. Si è così registrata un’impennata nell’informazione e nella comunicazione senza precedenti, nella speranza che il problema assumesse la giusta visibilità. E così è stato.

Una delle opere più apprezzate dal pubblico e dalla critica, che ha come tema centrale l’amianto, è Polvere. Al video-documentario di Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller sono stati assegnati 2 premi al Festival Internazionale di Cinemambiente e, proprio in questi giorni, il premio Parco Colli Euganei all’Euganea Film Festival.

Il docufilm ha attinto a piene mani da Asbestos in the dock, l’amianto alla sbarra, un progetto di social networking nato in parallelo e gestito da Niccolò Bruna a nome dell’Associazione Familiari delle Vittime dell’Amianto (Afeva) di Casale Monferrato, allo scopo di valorizzare tutto il patrimonio di informazioni scaturito dalle ricerche e per potenziare ed estendere a livello internazionale il messaggio della battaglia civile. «La storia del processo è una storia collettiva – spiega l’autore– una storia dove molte persone partecipano all’informazione e, attraverso la loro narrazione, ne completano il racconto. L’idea iniziale era fare un report settimanale sull’andamento del processo, anche per raccogliere informazioni utili per il documentario. In breve tempo Asbestos in the dock è riuscito a mobilitare persone che i media tradizionali non avrebbero raggiunto, perché su un fatto così specifico la loro copertura si limita ai momenti salienti del processo. Non solo Internet è stato determinante nel contribuire a diffondere al di fuori dei confini italiani le informazioni necessarie a tenere viva la mobilitazione internazionale (il 6 aprile 2009, giorno della prima udienza, erano molte le associazioni straniere presenti) ma ha favorito la partecipazione dei membri. Grazie al web esiste dunque la possibilità che un’informazione diversa, dal basso, partecipativa, raggiunga una qualità e una copertura maggiore rispetto ai media tradizionali. La forza del progetto è l’occuparsi di un tema molto specifico e locale, che richiama però un interesse globale. I mass-media guardano il lato spettacolare e non quello sostanziale, ma a Torino è in atto un processo che può diventare pietra miliare per il tema della responsabilità sociale delle imprese: è una questione simbolica anche più importante del processo stesso».

Per riprendere le eloquenti parole dei tre pm che a Torino si stanno occupando del caso, si tratta di un «disastro immane», che ha come «imputato allegorico principale l’amianto», ma i cui effetti micidiali su lavoratori e cittadini sono riconducibili alla condotta consapevole dei due imputati che per anni si è basata e si continua a basare su un’unica vile e spregevole strategia: la non comunicazione dei rischi.

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