Deepwater Horizon: cronaca di un disastro sottovalutato

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di Paolo Ghiga

Il terribile incidente occorso in occasione dell’Earth Day alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della Transocean Ltd, gestita dalla compagnia British Petroleum (BP) e dislocata nel Golfo del Messico si è trasformato in un disastro ambientale che rischia di essere il più grave di tutti i tempi, con una chiazza di petrolio estesa ben oltre i 160 km di fronte per 70 di ampiezza e che sta inghiottendo lentamente le Isole di Chandeleur, paradiso ambientale al largo della Louisiana.

L’incidente, dovuto ad una violenta esplosione e seguita da un furioso incendio, ha coinvolto 126 persone, 11 delle quali hanno perso la vita mentre 17 sono rimaste ferite in modo più o meno grave. Nella disperata corsa contro il tempo per arginare la perdita di greggio nel mare, non risolutiva si è rivelata la flotta di 32 navi inviate dalla BP e affiancate da 5 robot sottomarini, incaricati di richiudere le 3 falle apertesi nei tubi di trivellazione. Anche il successivo tentativo di spruzzare 400 mila litri di sostanze chimiche sulla superficie dell’oceano per intrappolare il greggio si è rivelato vano. Nell’arco delle 24 ore, le 3 falle situate a circa 1500 m di profondità disperdono nel Golfo del Messico l’equivalente di circa 5000 barili.

Il disastro della Deepwateer Horizon ripropone il problema del come prevenire situazioni del genere. Il deterrente economico delle sanzioni non è più sufficiente a sensibilizzare le multinazionali del petrolio ma anche di tutte le altre industrie che producono materiali tossici e inquinanti.
Dal novembre 2008 i reati a sfondo ambientale sono considerati a titolo di delitto e quindi gestiti all’interno del codice penale quali crimini tra i più gravi, non più giudicati come crimini “inferiori”. I disastri di Seveso, Porto Marghera, l’inquinamento del Reno da parte della Bayern, l’esplosione della fabbrica di soda della Solvay presso Bhopal, per giungere a Chernobyl e poi ai giorni nostri, non sono sicuramente volontari, né con dolo, ma rappresentano una colpa che dev’essere, d’ora innanzi, giustamente considerata, valutata e giudicata. Meccanismi premiali (causa di non punibilità, ravvedimento operoso, bonifica e ripristino) sono anche previsti per chi si attiva e impedisce o riduce i danni ambientali.
Una volta di più, a fronte all’abbondante legiferazione in materia e del sempre maggior numero di casi e problemi, si rende necessaria un’opera di comunicazione, sensibilizzazione e formazione, con approcci didattici, a livello sociale che puntino a far capire che l’ambiente è un diritto e allo stesso tempo un dovere di ogni cittadino responsabile.

Intanto la British Petroleum e il governo statunitense gestiscono un filo diretto che racconta l’evoluzione del disastro sui due social network più popolari al mondo Twitter e Facebook, sfruttando la potenza e la portata anche di YouTube e Flickr. Sembra che questa volta le grandi multinazionali non vogliano lasciare nulla di oscuro ma al contrario informare la gente. Si legge infatti in un comunicato dell’azienda che « in una situazione di crisi, i social media rappresentano il sistema più efficace per raggiungere le persone desiderose di informazioni, grazie una comunicazione diretta, efficace e aggiornata, se necessario, minuto per minuto». In questo modo il colosso petrolifero intende evitare le manipolazioni da parte di media molto più influenti come televisione e carta stampata, gestendo l’informazione in modo diretto e senza filtri. Ma le notizie veicolate sono oggettive? La British Petroleum ha trovato un modo per banalizzare un evento orribile e coprire le sue responsabilità spostando l’attenzione dell’opinione pubblica?

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