La recente approvazione da parte del Parlamento europeo dell’accordo definitivo sul pacchetto Omnibus segna un passaggio cruciale. Non è rilevante solo per la politica industriale dell’Unione Europea, ma anche per il modo in cui la sostenibilità verrà raccontata, interpretata e resa visibile nei prossimi anni.
Dietro la parola chiave semplificazione si consuma una riduzione sostanziale dell’ambizione delle principali direttive sulla sostenibilità d’impresa, la CSRD e la CSDDD.
Gli effetti vanno ben oltre la tecnica normativa e investono direttamente il terreno della trasparenza e della comunicazione ambientale.

L’accordo ridisegna il perimetro della sostenibilità regolata, riducendo in modo significativo il campo di applicazione delle regole europee sulla rendicontazione e sulla responsabilità delle imprese, con l’obiettivo dichiarato di alleggerire gli oneri amministrativi e rafforzare la competitività dell’economia europea.
Una scelta che, però, è maturata senza una reale valutazione di impatto, senza dati comparativi solidi e all’interno di un contesto politico sempre più polarizzato, segnato da un’alleanza strutturale tra il Partito Popolare Europeo e forze apertamente scettiche verso l’ambizione del Green Deal.
In questo quadro, la sostenibilità torna a essere rappresentata come un costo, un ostacolo, un problema da ridimensionare, più che come una leva strategica per il futuro dell’Europa.
Con l’Omnibus, la CSRD, che nella sua impostazione originaria avrebbe coinvolto circa 50.000 imprese europee, viene drasticamente ridimensionata. L’obbligo di rendicontazione di sostenibilità si applicherà ora solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e oltre 450 milioni di euro di fatturato, esentando di fatto circa l’80% delle imprese inizialmente incluse.
Molte realtà che avevano già avviato percorsi di reporting ESG escono così dal perimetro dell’obbligo. La rendicontazione si trasforma da strumento diffuso di trasparenza a pratica riservata a un numero ristretto di grandi gruppi.
Ancora più marcato è il restringimento della CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive). Questa introduce obblighi di due diligence lungo la catena del valore solo per imprese con oltre 5.000 dipendenti e più di 1,5 miliardi di euro di fatturato. L’entrata in vigore è posticipata al 2029.
La responsabilità sugli impatti ambientali e sociali viene quindi concentrata su pochissime multinazionali, mentre una vasta fascia di imprese medio-grandi — pur inserite in filiere complesse e ad alto impatto — resta fuori da obblighi vincolanti.
Dal punto di vista della comunicazione ambientale, questo ridimensionamento ha un significato molto chiaro: meno aziende saranno tenute a raccontare in modo strutturato i propri impatti, e quindi meno dati, meno confrontabilità, meno narrazioni verificabili entreranno nello spazio pubblico.
La sostenibilità rischia così di diventare un tema sempre più elitario, raccontato da pochi grandi player. Dovrebbe essere invece un linguaggio diffuso e condiviso capace di orientare cittadini, investitori e territori.
Il richiamo costante alla competitività funziona come un frame comunicativo efficace, ma semplificato, che riduce la sostenibilità a una variabile accessoria. Eppure, proprio in un contesto globale instabile — segnato da crisi climatiche sempre più frequenti, tensioni geopolitiche e fragilità delle catene di fornitura — la sostenibilità rappresenta una delle poche vere leve strategiche dell’Europa, non solo in termini ambientali, ma anche sociali, industriali e di sicurezza.
Trattarla come un costo da comprimere non è solo una scelta politica discutibile, ma anche un errore di narrazione, che indebolisce il racconto europeo della transizione. Lo rende difensivo, poco credibile, confuso e distante dalle aspettative di cittadini, giovani generazioni e mercati.
Eppure, mentre la politica sembra arretrare, il mercato continua a muoversi in una direzione diversa. Investitori istituzionali, imprese strutturate e attori finanziari (come la BCE a luglio) hanno ormai ben chiaro che la gestione dei rischi ESG, la definizione di obiettivi ambientali e sociali credibili e la trasparenza verso gli stakeholder non sono un adempimento ideologico. Sono, piuttosto, una condizione di resilienza e competitività nel medio-lungo periodo. Di conseguenza, molte aziende continueranno a rendicontare, misurare e comunicare i propri impatti anche oltre gli obblighi normativi. Questo accade perché il mercato — quello finanziario, assicurativo e delle filiere globali — lo richiede sempre più esplicitamente.
In questo scenario, la comunicazione ambientale rischia di diventare un terreno a due velocità. Da un lato chi investe in trasparenza per scelta strategica, costruendo fiducia e credibilità nel tempo. Dall’altro chi si limiterà al minimo indispensabile, sfruttando l’assenza di obblighi per ridurre l’esposizione pubblica dei propri impatti. Ma proprio qui si apre uno spazio di opportunità. Perché dove il quadro normativo sembra arretrare, la credibilità diventa un vero valore competitivo. Il mercato tende a premiare chi ha investito per tempo nella transizione, chi è in grado di raccontare la sostenibilità con dati, coerenza e continuità.
Il voto sull’Omnibus non è quindi solo una decisione tecnica. È una scelta che ridefinisce chi parla di sostenibilità e come.
E la comunicazione ambientale ci ricorda una lezione fondamentale: meno trasparenza non significa più competitività e semplificazione, così come meno dati non significano meno impatti.
La vera sfida europea non è semplificare togliendo voce, ma rendere la sostenibilità comprensibile, accessibile e condivisa, senza rinunciare alla responsabilità. Perché senza un racconto solido, credibile e diffuso, la transizione rischia di restare solo una parola.