Come è andata la COP30? Intervista a Italian Climate Network

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Il divario tra dove siamo e ciò che la scienza richiede rimane pericolosamente ampio.

Questa la frase del Segretario Generale dell’ONU António Guterres per definire lo scenario con cui si è conclusa la COP30, la conferenza Onu sul clima che si è svolta dal 10 al 22 novembre in Brasile.

Per raccontare le due settimane di lavoro e le sensazioni vissute durante e al termine della trentesima Conferenza delle Parti, abbiamo fatto qualche domanda ad Anna Pelicci, ingegnere ambientale e capo delegazione in Brasile di Italian Climate Network, onlus nata nel 2011 per affrontare la crisi climatica con attività di educazione, divulgazione e advocacy.

Quali sono le tue sensazioni al termine della COP30?

La COP30 di Belém, alla fine, lascia una doppia sensazione: da un lato mostra che il processo multilaterale sul clima è ancora vivo, dall’altro rivela in modo piuttosto netto dei limiti. Ma se guardiamo alla fisica del clima, restano troppe caselle vuote: nessuna roadmap credibile per l’uscita dai combustibili fossili, pochi passi avanti sugli NDC e sui gap di implementazione, finanza climatica ancora molto sotto il necessario.

L’1,5°C rimane più un ancoraggio politico che un piano operativo, e questo indebolisce il messaggio verso l’esterno. In sintesi: non la “COP del fallimento”, ma nemmeno la svolta che molti speravano. Adesso la palla passa alla Turchia e all’Australia, nella speranza di una ripresa forte nella COP31.

Quali le differenze hai riscontrato con le precedenti COP?

Questa COP è molto diversa dalle precedenti. Fino all’anno scorso ogni COP aveva un obiettivo molto ben definito: un passaggio dell’Accordo di Parigi da chiudere, un meccanismo da definire. Per esempio, COP29 a Baku aveva l’obiettivo finanziario. Oggi no.

La definizione dell’Accordo di Parigi è completa: la COP30 è stata la COP dell’implementazione, una vera novità.

In Italia si parla molto di finanziamenti per le perdite e i danni: quali sono le posizioni più distanti al momento?

Dai negoziati sul Fondo Perdite e Danni ci si aspettavano passi avanti cruciali, e l’ardore che abbiamo visto in sala durante la prima settimana – quella più tecnica – sembrava confermare le aspettative. Nella seconda settimana di COP30, più politica, abbiamo registrato un brusco cambio di passo, con posizioni che sono sembrate difficili da conciliare.

Quanto hanno inciso le pressioni dell’industria fossile sul processo negoziale?

L’industria fossile è sempre stata presente e, se non cambiamo il funzionamento delle COP, ci sarà sempre. Si tratta peraltro di attori che hanno un ruolo in questa storia, visto che la transizione passa anche dalla ridefinizione integrale dei loro asset. É chiaro che i lobbisti del fossile cercano di rallentare il processo e vengono alle COP sul clima per stringere accordi, ma potremmo iniziare a sfruttare la loro presenza per metterli davanti alle loro responsabilità, ai danni e alla povertà che creano. Credo che questa occasione non sia sfruttata a sufficenza.

Come valuti la copertura mediatica mainstream della COP? È stata chiara o fuorviante su alcuni temi?

La copertura mainstream della COP è stata discontinua, il quadro generale rimane frammentato e spesso superficiale. Esistono però redazioni che fanno un buon lavoro, con corrispondenti sul campo e factchecking serio. Va riconosciuto che la COP è un evento tecnicamente complesso e pieno di diplomazia opaca: anche chi vorrebbe raccontarla bene deve fare i conti con tempi stretti, comunicati vaghi e pressioni politiche.

Questo può portare a semplificare eccessivamente temi molto complessi, per raccontarli in poco tempo e in modo più digeribile, oppure si tende a dare letture binarie: successo o fallimento.

Quali sono gli errori più frequenti che vedi nel racconto giornalistico della crisi climatica?

Gli errori più ricorrenti sono probabilmente quattro:

  • Il primo è marginalizzare il tema: il clima entra negli articoli come nota a margine, mai come chiave di lettura centrale.
  • Il secondo, non nominare le cause: non possiamo continuare a parlare di eventi estremi come se fossero sfortuna meteorologica. Quando si verificano è molto raro trovare nel racconto mainstream un collegamento esplicito a crisi climatica e utilizzo dei combustibili fossili.
  • Poi sicuramente citerei il cosiddetto “false balance” ovvero dare spazio a posizioni pseudo-scientifiche o a “dibattiti” dove non invece dibattito non c’è. Capita ancora troppo spesso di trovare sullo stesso piano dati scientifici e opinioni negazioniste e proposte come se fossero ugualmente valide.
  • Infine il catastrofismo o l’eccessivo ottimismo green. Due polarità che funzionano bene a clic, ma non aiutano a informare.

Come si può coinvolgere un pubblico che sembra spesso disilluso o spaventato dai temi climatici?

Da una parte è davvero fondamentale mostrare quanto il tema sia vicino a noi, umano: il clima non è qualcosa di astratto ma fa parte della nostra vita quotidiana. Dall’altra, serve mostrare soluzioni vere, non slogan: tecnologie che funzionano, politiche che riducono le emissioni e migliorano la qualità della vita, scelte quotidiane che fanno risparmiare e tengono l’aria più pulita.

Presidente da República, Luiz Inácio Lula da Silva, durante a fotografia oficial da Cúpula do Clima (COP30). Parque da Cidade – Belém (PA) Foto: Ricardo Stuckert / PR