La newsletter è una conversazione. L’esperienza deve essere quella di ricevere una mail da qualcuno che conosci.
Questo il punto di partenza per comprendere al meglio Areale, la newsletter del giornalista Ferdinando Cotugno, edita dal quotidiano Domani.

Si tratta di un vero e proprio dialogo sul tema ambientale, ma a partire da argomenti molto più ampi, come l’iper normalizzazione delle notizie o gli effetti della tragica guerra in Medio Oriente. Il tema e l’evoluzione della stessa newsletter li abbiamo approfonditi in un’intervista con l’autore.
Quali sono i problemi attuali per quanto riguarda la comunicazione ambientale?
A mio parere nella comunicazione ambientale c’è un problema di discontinuità. Si parla tantissimo di crisi climatica, ma con dei picchi, che di solito corrispondono a quando un problema climatico, sul fronte degli effetti, ci colpisce molto da vicino, geograficamente, politicamente, culturalmente o economicamente.
Poi se magari per mesi non succede niente vicino a noi di crisi climatica non si parla più. Non si riesce ad avere una comunicazione che sia costante: se ne parla soltanto quando c’è l’adrenalina dell’emergenza.
Siamo di fronte ad una nuova normalità, non davanti ad un’emergenza.
C’è poi il tema della vicinanza geografica, per cui per noi esistono eventi estremi solo in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Un criterio universale del giornalismo, che però in questo ambito rende la comunicazione molto problematica perché molto dipendente dalla cronaca.
Proprio in questi giorni c’è stata un’enorme, devastante alluvione in Nigeria, da 120 morti, che però non si è avvicinata nemmeno ad essere l’ultima delle brevi nei giornali.
Tra il 2020 ed il 2022 c’è stato un cambiamento in negativo nel racconto della crisi climatica? Tra i fattori sempre citati ci sono il Covid e guerra in Ucraina, tu ne sai individuare altri?
Il terzo elemento è la combinazione di crisi energetica e inflazione che forse più delle prime due è stata una mazzata per il movimento. Purtroppo sono state lette nella cornice della sicurezza energetica. Quindi siamo entrati in una fase in cui non c’era niente di più importante della sicurezza energetica.
È stato un fatto paradossale perché la crisi energetica e l’inflazione, se lette nel modo giusto, possono essere un grande argomento per la transizione, ma così non è stato.
Un altro elemento importante, e che riguarda tutte le democrazie, è la repressione. In modo estremamente coordinato tutte le democrazie hanno cominciato a reprimere i movimenti e le proteste pacifiche degli attivisti climatici.
Ovviamente ciò ha alzato il prezzo della partecipazione: chi era estremamente motivato non si è fatto scoraggiare, ma gli altri comprensibilmente non hanno più partecipato, le piazze si sono svuotate, l’attenzione dei media si è distolta e inoltre il movimento si è polarizzato.
Come ti sei avvicinato al tema ambientale e della crisi climatica?
È stato un misto di interesse personale, attivazione collettiva ed esperienze che mi hanno portato a riconoscere questo tema come il grande argomento della contemporaneità.
Un tema attraverso il quale se ne potevano raccontare molti altri. Mi sembrava di poter uscire da certi circuiti un po’ consolidati della professione.
Altro fattore determinante è stato la nascita del quotidiano Domani. È un giornale che fin dalla sua fondazione ha deciso di mettere il clima e l’ambiente tra i suoi argomenti fondanti e quindi mi ha dato spazio, libertà e anche la fiducia per potermene occupare tutti i giorni.
Poi l’incoraggiamento definitivo ad occuparmi di questo argomento è arrivato da una serie di viaggi che ho fatto, forse tra tutti il più determinante quello, di circa 8 anni fa, nell’Artico. Lì mi sono reso conto della portata e della scala di questa crisi. Lì mi sono reso veramente conto di quanto questo tema fosse importante e decisivo.
Cosa ti ha colpito in modo particolare di questo viaggio? Hai potuto vedere i danni che produce il surriscaldamento globale?
Nell’Artico, più che vederlo, l’ho percepito attraverso il terrore delle persone. È stata più un’esperienza umana che visiva. Inoltre sono andato in inverno e quindi faceva molto freddo: se non avessi avuto tutti gli elementi per contestualizzare difficilmente avrei fatto questa elaborazione. Questi elementi li ho trovati nei racconti delle persone.
Sono stato alle Isole Svalbard due volte quell’anno e parlando con i tanti ricercatori e scienziati presenti me lo hanno fatto capire in modo molto chiaro: voi non vi rendete conto di cosa stia succedendo qui e di quanto il cambiamento sia veloce e spaventoso.
Uno dei punti di forza di Areale è il suo essere estremamente narrativa, è sempre stata così o c’è stata un’evoluzione nel modo di scriverla?
È stata assolutamente un’evoluzione. Proprio due mesi fa Areale ha compiuto 4 anni e io per curiosità sono andato a rileggermi le prime email che mandavo e così mi sono accorto proprio di quanto fossero diverse nel modo e nel tono rispetto a quelle di oggi.
È stata un’evoluzione abbastanza naturale, soprattutto quando mi sono reso conto che stava nascendo una comunità di persone che in modo progressivo hanno iniziato ad interagire con me, quasi sempre tramite email.
Per me era fondamentalmente rispettare il fatto che si tratta di una conversazione e non di un articolo. L’articolo è una specie di affermazione, tu hai uno spazio e affermi e racconti delle cose. La newsletter è più una conversazione, racchiusa nel numero che esce il sabato mattina, ma appunto in forma dialogica.
Penso abbia un livello di attenzione molto alto ed è la cosa più scarsa che c’è nel mercato dell’informazione oggi. Questa forma mi è sembrata quella migliore, quella che mi permetteva di coltivare la comunità che andava nascendo e di entrarci in dialogo.
Tra i feedback che citavi prima ce ne sono alcuni che ti sono rimasti maggiormente impressi?
Sicuramente alcuni sono stati importanti per il processo di crescita di questo lavoro. Mi ricordo una lettrice, pochi mesi dopo che era nata la newsletter, mi scrisse che le piaceva molto il mio lavoro, mi ringraziava, e poi chiuse dicendo «però a volte quello che mi scrivi è così triste che mi rovina il sabato».
In quel momento io ho pensato che non volevo rovinare il sabato a nessuno. Quella conversazione mi fece capire quanto fosse importante, anche nel dare cattive notizie, dare respiro, aggiungere anche un senso di possibilità.
Con quel singolo messaggio mi sono reso conto di una cosa che poi è diventata un po’ una cifra stilistica della newsletter. Provare, anche raccontando gli episodi più cupi, ad avere un flusso di speranza.
Legandomi al messaggio della signora ti chiedo: parlando di crisi climatica può essere necessario creare anche un po’ di ansia?
No, non è un obiettivo che deve avere chi scrive di clima. L’obiettivo deve essere quello di spingere alla partecipazione pubblica.
Il grande bisogno che abbiamo riguardo la crisi climatica è che le persone partecipino a questo grande sforzo. Si può fare con le proprie scelte politiche, con le proprie scelte di consumo, con le proprie scelte finanziarie e così via.
Una buona comunicazione sui cambiamenti climatici è una comunicazione che ti fa venire voglia di stare nella partita, di non disinteressartene, di non essere fatalista.
L’ecoansia è un problema reale e molto diffuso, però se viene lasciata non governata diventa paralizzante, soprattutto su un tema così vasto e complesso.
Il nostro intento deve essere quello di parlare anche alle persone che hanno ecoansia e di dire loro che questo è un problema enorme, ma che si può affrontare. Abbiamo gli strumenti adatti e il primo è proprio la partecipazione pubblica.ù
Immagine di copertina Materia Rinnovabile