L’insostenibile leggerezza del greenwashing

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Da qualche anno, il termine Greenwashing viene utilizzato nel settore del marketing per fare riferimento ad una strategia di comunicazione finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Nato dall’unione di due parole: green (verde) e washing (lavare), il termine richiama il verbo whitewash (imbiancare), neologismo utilizzato per indicare la pratica di coprire difetti con un’immagine artificialmente positiva.

Secondo diversi studi di mercato, infatti, i consumatori sono sempre più spinti ad acquistare prodotti definiti sostenibili e dunque è nell’interesse delle aziende promuovere il proprio marchio in associazione con pratiche volte alla salvaguardia ambientale. Alla teoria, però, spesso non segue la pratica. Infatti, è stato dimostrato che, in alcuni casi, attraverso l’utilizzo di strategie di green marketing l’azienda cerca di focalizzare l’attenzione del consumatore su una singola qualità del prodotto, che di solito è richiesta per legge (“non testato sugli animali”, “non contiene gas che danneggiano l’ozono”) o non ha un significato specifico (“amico della natura”), mentre rimane silente sulla provenienza o l’utilizzo di altri materiali “non sostenibili” all’interno del medesimo prodotto.

Un settore che è particolarmente interessato dal fenomeno del greenwashing è quello del tessile, in particolar modo il cosiddetto “modello fast-fashion”. L’assortimento continuo, i prezzi bassi causati principalmente dall’utilizzo di manodopera a basso costo, spesso in condizioni di sfruttamento, e un modello di vendita al dettaglio su scala globale fanno impennare l’impatto ambientale e sociale alle stelle. Infatti, iniziative promosse dai giganti del settore (come il riciclo di abiti usati per crearne di nuovi, pratica difficilmente possibile in quanto i vestiti prodotti dalle stesse aziende sono composti da una miscela di materiali difficilmente separabili, oppure l’utilizzo di cotone biologico prodotto da veri e propri schiavi in campi di lavoro) che puntano a rendere green l’immagine del brand, nascondono in realtà verità molto più agghiaccianti.

L’aumento dell’attenzione su questo fenomeno ha portato alla crescita del cosiddetto “contenzioso ecologico (o climatico)” contro le aziende, spesso legato alle azioni di responsabilità sociale d’impresa, avviate dagli azionisti di minoranza che non condividono le scelte (spesso imperniate da pratiche di greenwashing) degli amministratori o dei soci di maggioranza.

Inoltre, fino al 2014 in Italia non esisteva alcun chiaro riferimento legislativo al fenomeno, ma le eventuali dichiarazioni false o inesatte prodotte allo scopo di incrementare le vendite erano (e sono ancora) soggette al controllo e alle sanzioni dell’Antitrust (cosiddetta “pubblicità ingannevole”). Soltanto con la pubblicazione da parte dell’IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria) di un nuovo articolo nel “Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale” si è fatto riferimento all’abuso di diciture che richiamano la tutela ambientale.

Infatti, il fenomeno del greenwashing, oltre a minare la fiducia dei consumatori, mentendo sulle iniziative “green”, anziché mettere in discussione i loro acquisti (non sostenibili), li rinforzano, sfruttando semplicemente un’opportunità offerta dal mercato: il crescente interesse dei consumatori verso la sostenibilità.

Questi segnali, provenienti dal sistema legislativo e giudiziario, dimostrano che inizia ad esserci grande interesse nell’affrontare il tema. È dunque necessario che sia le aziende, sia i consumatori inizino a spingere fortemente per un modello economico veramente green e circolare.

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