Comunicare l’economia circolare alle imprese: il management sostenibile

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Un tema di cui si parla sempre più spesso, quello della sostenibilità ambientale. Vengono valorizzate le azioni e riprese le parole degli esperti, ma si cercano soprattutto pratiche soluzioni che possano determinare un impatto sistemico e specifico. L’economia circolare, in tal senso, è uno strumento efficace. Come attuarlo nelle imprese italiane?

Se ne parla nel libro “Management dell’economia circolare: principi, drivers, modelli di business e misurazione”, edito da Franco Angeli. A presentare questo lavoro uno dei suoi autori: Fabio Iraldo, professore ordinario di management alla Scuola Superiore Sant’Anna. Con Marco Frey e Natalia Marzia Gusmerotti, Iraldo propone una guida per comprendere l’economia circolare e per adattarla alla realtà delle imprese italiane.

Dottor Iraldo, com’è nato questo progetto? Con quali premesse e quali aspettative?

«Il libro è figlio di una serie di esperienze dei contesti di ricerca in cui i nostri ricercatori operano, divisi tra la Scuola Sant’Anna di Pisa (Laboratorio SuM, Sustainability Management) e la Bocconi (Centro Green). Abbiamo sviluppato un insieme di attività di progetti di ricerca sull’economia circolare perché delle aziende committenti (specialmente piccole-medie imprese) e associazioni di categoria hanno voluto essere supportate in questa logica innovativa. Oltre a fornire un check-up tool che permetta all’azienda di capire il suo livello di posizionamento, il libro fornisce gli strumenti per migliorare la propria strategia circolare. L’obiettivo è spiegare che, se un’azienda vuole fare economia circolare, deve adeguarsi a dei cambiamenti».

Fonte: www.europarl.europa.eu

Sebbene il range di interlocutori sia vasto, sono soprattutto le imprese a poter far tesoro delle indicazioni fornite da questo lavoro. L’analisi è rivolta specialmente alle piccole-medie imprese, ossatura del sistema produttivo italiano. Ad oggi, qual è il livello di performance delle aziende nell’utilizzo circolare delle risorse?

«L’Italia è sempre stata un caso eccellente nell’economia circolare, ma è vero soprattutto a livello sistemico: l’ambiente istituzionale e di mercato su cui operano è molto supportato. Basti pensare ai consorzi, molto efficaci nel garantire un flusso delle materie prime riciclate. Esistono quindi programmi di sostegno e finanziamento, ma le performance delle singole aziende italiane sono nella media. Ancora una volta, in particolare le piccole-medie imprese. È forte l’attenzione all’utilizzo di materie riciclate, ma debole il settore della ricerca e dello sviluppo. È un problema: la fase di design è cruciale per capire quanto un prodotto possa poi essere disassemblato e riutilizzato nell’economia circolare. Vediamo dunque luci e ombre nell’industria italiana sul tema».

Secondo lei, a mancare è più una formazione sulla ricerca innovativa o la volontà ad investire sui giovani talenti nel settore?

«Da un lato, credo che ci sia un gap generazionale. I giovani che escono dalle università attente sulle tematiche ambientali trovano poi delle imprese non così pronte a recepire queste competenze. La classe manageriale non è esattamente giovanissima e il passaggio generazionale in Italia è cosa molto lenta. Il mercato della formazione, invece, si muove più velocemente. D’altra parte, possono essere fatti moltissimi passi avanti anche nelle Università: ci sono molti corsi sulla green economy, ma i programmi sono ancora ambiti relegati ad insegnamenti marginali e opzionali, non sono ancora penetrati nel core topic – salvo ovviamente gli istituti specializzati».

Luci e ombre. È il momento di chiarire alcuni aspetti per attuare cambiamenti vantaggiosi. Il raggiungimento della neutralità climatica è un obiettivo centrale dell’Unione europea. Con questo fine, la Commissione ha presentato il “Green New Deal”: un patto con scopi specifici e finanziamenti dedicati. L’Italia è pronta a questa transizione e a competere coi livelli di sostenibilità ambientale?

«Distinguiamo il ragionamento in tre passaggi.
Cosa dovrebbero fare le aziende italiane rispetto al Green New Deal? Se un’azienda vuole essere in grado di cogliere questi fondi, deve accrescere il suo livello di consapevolezza: la sostenibilità è competitiva sul mercato e sarà sempre più esigente sotto questo punto di vista. Alle piccole-medie imprese manca ancora qualche step di consapevolezza e il coraggio di percorrere questa direzione per gli investimenti.

Cosa dovrebbe essere fatto per facilitare questi step? Il coraggio deve essere spinto da motivazioni. In Italia, alcune leve devono essere attivate con più intensità: una maggiore flessibilità del quadro regolatorio per il rimpiego di materie prime e seconde, una più larga diffusione dell’end of waste, incentivi e defiscalizzazione dei prodotti derivanti dal riciclo. Devono essere coinvolti il settore bancario, finanziario e assicurativo per rendere allettanti questi cambiamenti.

Che cosa è stato fatto finora? Alcune indicazioni normative dimostrano che i policy makers stanno iniziando a capire queste logiche. A livello nazionale, si è visto una bozza circolante del Recovery Plan, molto contestata per la sua genericità che non risponde ai crismi imposti dalla Commissione europea per la ricezione del fondo. Abbiamo bisogno di un quadro più preciso e dettagliato, perché rischiamo di mettere insieme misure raffazzonate che consolidano l’esistente».