Ponti crollati, controllati e controllori. Un’occasione (mancata) per riflettere

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“Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata”. Questa frase di George Bernard Shaw potrebbe essere l’epitaffio del tempo che stiamo vivendo, in cui la complessità del nostro quotidiano cresce incessantemente, al pari della tendenza alle risposte ipersemplificate, ridotte a slogan o a post di poche frasi sui social. Questa deriva investe la nostra società a tutti i livelli, inclusa purtroppo la classe dirigente. Il modo in cui la nostra collettività sta reagendo alla tragedia del Ponte Morandi di Genova non sfugge a questo schema: ricerca spasmodica di colpevoli qui e oggi “senza aspettare i tempi della giustizia”, rimpallo di accuse e insulti tra fazioni politiche, invocazione del capro espiatorio.
Eppure, come tutte le grandi tragedie, il crollo del Ponte Morandi potrebbe essere un’occasione di riflessione utile e produttiva su aspetti importanti del modello di sviluppo che il nostro Paese si è dato negli ultimi decenni. Si potrebbe ad esempio farsi qualche domanda sulla totale abdicazione degli enti pubblici, dallo Stato Centrale al più piccolo dei comuni, al ruolo di erogatore di servizi ai cittadini: dalle autostrade agli asili nido, dall’acqua potabile ai rifiuti, non c’è ambito nel quale la presunta efficienza del privato non sia stata preferita senza se e senza ma al pubblico, indiziato (spesso a ragione) di essere farraginoso e corrotto. Al di là delle considerazioni, qualche volta razionali ma altre volte ideologiche, che hanno nel tempo guidato queste scelte, non si può non notare come l’esito al quale siamo di fronte sia nella quasi totalità dei casi una pericolosa confusione di ruoli tra enti pubblici e concessionari, tra controllati che si certificano da soli, e controllori incapaci di assolvere il proprio compito.
L’ambiente, e quindi salute e benessere di tutti noi, sono quotidianamente e silenziosamente vittime di questa situazione. Il trattamento dei rifiuti, la produzione di energia, la costruzione e gestione di infrastrutture, tutte attività dal forte impatto ambientale, rientrano quasi sempre nello schema appena descritto. Tutti sembrano ritenere normale, o almeno inevitabile, che il nostro Stato, o Regione, o Comune, ceda servizi a privati “chiavi in mano”, rinunciando spesso ai più elementari controlli, per mancanza di personale e fondi, o a causa di una classe dirigente incompetente o succube. Bolliti a fuoco lento come la famosa rana di Chomsky, pare proprio che ci sia bisogno di sciagure come quella di Genova per risvegliare l’attenzione e le coscienze. Per cambiare questo stato di cose serviranno ovviamente scelte politiche di grande coraggio e interventi legislativi incisivi. Ma sarebbe anche necessario un sistema mediatico e comunicativo meno propenso a cavalcare le reazioni di pancia, il sensazionalismo strappalacrime, i fischi e gli applausi di folle accecate da una rabbia comprensibile ma sterile. Abbiamo bisogno di diffondere un pensiero ecologico nel senso etimologico del termine. Un pensiero che, su rigorose basi scientifiche e razionali, legga ed interpreti i fenomeni non solo in quanto tali, ma con uno sguardo allargato nel tempo e nello spazio, capace di comprendere e comunicare cause, conseguenze e implicazioni di ciò che accade.

Rolando Cervi

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