#NoNimby: la complessità del conflitto ambientale.

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di Emanuele Biestro

Il linguaggio è nato come agire dell’uomo per definire le cose di cui aveva bisogno: dapprima le più elementari e d’uso quotidiano, poi via via le più complesse. Dal reale all’idea, alcune volte i termini si prestano a storture, deviazioni, o  semplicemente col passare del tempo non sono più adatti a rievocare quell’idea che intanto è evoluta. Questo è quanto hanno pensato ricercatori e docenti di alcune Università Italiane che hanno dato vita ad un’iniziativa culturale chiamata #NoNimby. L’iniziativa ha come obiettivo il superamento della Formula Nimby per identificare un conflitto ambientale, perché superata e limitativa della definizione dello stesso conflitto. Il manifesto di questa iniziativa, rintracciabile sul sito nonimby.tumblr.com, è rivolto al mondo scientifico e ai media, alla politica e a tutta la società civile, per il superamento dell’uso di questa formula. Scopriamo di più su questo progetto con un’intervista a Alessandro Caramis, sociologo del territorio e dell’ambiente presso l’università la Sapienza di Roma.

Cosa si intende per formula Nimby?

Nimby è un acronimo di Not in my backyard, tradotto “Non nel mio cortile”. Viene quasi sempre usato dai media e dai politici o manager aziendali per spiegare i conflitti ambientali che nascono attorno alla realizzazione di un’opera. L’uso di questo acronimo di stretta derivazione americana (anche nel richiamo dell’immagine del cortile di casa tipicamente legato all’immaginario dell’american way of life) sta ad indicare che le popolazioni locali che protestano contro la realizzazione di un’opera lo fanno meramente per ragioni egoistiche e localistiche e che sarebbero anche favorevoli alla sua realizzazione purché da un’altra parte.

Perché pensate che non sia più utile anzi dannosa per superare i conflitti ambientali?

Perché da almeno tre decenni è una formula e ipotesi superata nella comprensione  e spiegazione dei conflitti ambientali riguardo le grandi o piccole opere, piani o progetti che vano ad impattare su un territorio. La letteratura scientifica nazionale e internazionale che studia da decenni questi fenomeni afferma che, salvo qualche caso, la cosiddetta sindrome nimby non esiste. Le ragioni della protesta non riguardano solo la contrarietà all’opera di per sé bensì investono questioni inerenti la salute, la qualità delle vita, la modalità top-down e impositiva con la quale si prendono scelte importanti sul territorio, il modello di sviluppo auspicato o quello certamente non desiderato, la mancata fiducia verso gli esperti e i controllori delle tecnologie proposte, la iniqua distribuzione dei benefici e tutta una serie di altre ragioni che sono più o meno accentuate da caso a caso.

Cosa proponete al suo posto?

In America la formula Nimby è stata sostituita da molti termini più o meno validi. Un termine più neutro è Lulu (Locally Unwanted Land Use) tradotto: Uso non desiderato del territorio locale. Sicuramente il concetto è meno stigmatizzante e pur se semplificativo non da un giudizio prima di comprendere e spiegare un fenomeno come viene fatto con Nimby. Noi non abbiamo subito proposto un termine o una modalità esplicativa alternativa e non vogliamo importare automaticamente termini e formule nate da altri contesti. Questa campagna è parte di un’operazione culturale molto più vasta che parte dal presupposto condiviso da tutti i firmatari e gli aderenti all’appello che la formula Nimby è ormai superata, sbagliata e anche dannosa per spiegare i conflitti ambientali e arrivare a confrontarci insieme su quali possono essere le formule o le ipotesi più appropriate per spiegare tali fenomeni in Italia. Il mondo della ricerca su questo aspetto è già “controllato” perché ha nella sua metodologia già i presupposti per validare o smentire un’affermazione. L’obiettivo è fare arrivare il messaggio al mondo dei media mainsteam e soprattutto alla classe dirigente che utilizzano ancora la formula nimby in maniera spesso impropria. Il primo crediamo lo faccia più per abitudine, esigenze di semplificazione e ragioni di audience, il secondo temo lo faccia strumentalmente con l’intenzione di screditare, stigmatizzare e negare le proteste legittime di movimenti e comitati che nascono ogniqualvolta si propongono impianti non desiderati. Riconoscere che chi protesta non è mosso da una strana malattia contagiosa definita sindrome nimby ma da ragioni legittime che hanno motivazioni più profonde è interesse prima di tutto di chi vuole proporre un’opera ed evitare laceranti quanto lunghi conflitti sociali che gli portano solo danno. In Europa ed in America grazie anche ad una legislazione che è venuta incontro a questi problemi lo hanno capito anche loro. In Italia ancora no.

Con quali mezzi di comunicazione state affrontando questa sfida?

Al momento la campagna si appoggia ad un mini blog creato per l’occasione mediante il quale diffondiamo in forma virale il manifesto-appello, i comunicati stampa, gli articoli e le pubblicazioni che ci segue sta condividendo per confrontarsi sul fenomeno. Abbiamo appena avuto l’adesione al manifesto della FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e lo riteniamo un passo molto importante perché proprio a partire dal giornalismo ambientale pensiamo che possa partire un’operazione di coinvolgimento molto più vasta al resto del settore dei media. Questo autunno organizzeremo un convegno al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (Coris- Sapienza) nel quale con ricercatori, docenti, operatori della comunicazione, esponenti dell’associazionismo, decisori pubblici e privati ci confronteremo su questo tema.