Teatro e Comunicazione ambientale: Domande a Vacis

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di Francesco Rasero

Gabriele Vacis, 53 anni, è un affermato regista, drammaturgo e autore televisivo italiano. Laureato in Architettura, dal 1982 è nel mondo del Teatro, dove ha introdotto innovazioni a livello nazionale e internazionale. Ha tenuto corsi all’Accademia d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano; oggi insegna “lettura e narrazione orale” alla scuola Holden di Torino. Ha diretto numerosi festival ed è regista del Teatro Stabile di Torino.
Recentemente, inoltre, ha esordito come regista cinematografico con il lungometraggio “Uno scampolo di Paradiso”, dedicato alla città di Settimo Torinese in cui è cresciuto: la pellicola è stata presentata lo scorso anno al Torino Film Festival e verrà proposta venerdì 27 febbraio ad Alba (Cuneo) nell’ambito del programma “Aspettando Collisioni” (http://www.collisioni.it/).
Fin dall’antichità il Teatro si è occupato di indagare sul rapporto tra Uomo e Natura. Lei, spesso, ha scelto di mettere in scena spettacoli che affrontavano aspetti di questo complesso e intricato rapporto: dal celebre “Vajont” con Marco Paolini all’attuale “Viaggiatori di pianura”, in cui si racconta di tre viaggiatori scampati a tre differenti inondazioni (Polesine, Tsunami e New Orleans), ma anche lo “Zio Vanja” di Cechov, con cui proprio in questi giorni ha inaugurato il restaurato “Carignano” di Torino.
C’è una volontà di usare il Teatro anche come strumento di comunicazione ambientale, oltreché di educazione e sensibilizzazione civica? E’ una “necessità” che il Vacis-regista sente come propria?

Sinceramente non mi sono mai occupato in modo particolare dei problemi dell’ambiente. Eppure, a ripensarci, molti miei spettacoli hanno una carica fortemente “ecologista”, a partire dal vecchio “Esercizi sulla tavola di Mendeleev” che si faceva in spazi aperti e richiedeva proprio luoghi “naturali”. Non è qualcosa che accade consciamente, non mi metto a pensare “adesso faccio uno spettacolo ecologista”… Io penso a una storia, sono affascinato da certe vicende e certi personaggi, e voglio raccontarli. Poi mi accorgo che sono storie che si preoccupanodell’ambiente o denunciano il degrado ambientale. Forse dipende dal fatto che la salvaguardia dell’aria, della terra e dell’acqua, che ci fanno vivere, è una questione importante, forse è la grande questione del nostro tempo. Così alla fine mi trovo a scrivere e a metter in scena spettacoli “ecologisti”. Perché raccontare il presente è raccontare le campagne, le città, il mondo in cui viviamo.

Esiste, nel Teatro contemporaneo nazionale e internazionale, un filone “ambientale”? Il pubblico ricerca, o quantomeno coglie, questi aspetti?
Non credo esistano vere e proprie “correnti” di Teatro ambientale… Eppure il Pubblico coglie molto profondamente i messaggi che riguardano la salvaguardia del territorio. Ed è vero che queste tematiche sono presenti nel Teatro classico: un esempio è “Zio Vanja” di Anton Cechov, dove uno dei personaggi, il dottor Astrov, è un vero e proprio ecologista, nel senso che, più di un secolo fa, aveva una precisa consapevolezza del degrado del territorio, della scomparsa delle foreste e degli ambienti naturali. Molte persone tra il Pubblico, alla fine dello spettacolo, sono venute a congratularsi con me per aver messo l’accento su questo problema , che considerano scottante. Ma io non ho fatto altro che mettere in scena le parole che Cechov ha scritto centodieci anni fa…

Il rapporto Uomo/Natura si estrinseca anche sotto forma dei modi con cui l’essere umano occupa il territorio che lo circonda: case, strade, industrie… In altre parole: città.
Lei ha anche scelto di dedicare proprio al tema della città il suo primo lungometraggio cinematografico, “Uno scampolo di Paradiso”, in cui racconta la storia del luogo in cui è cresciuto: Settimo Torinese, nella periferia del capoluogo piemontese. E proprio in una periferia urbana –che spesso viene indicata come uno dei risultati più “dis-umanizzanti” del sopravvento dell’Uomo sulla Natura- Lei afferma di trovare “uno scampolo di Paradiso”. Qual è il segreto?
Guardare e ascoltare. Senza pregiudizi. Quando ho cominciato a pensare al film, credevo di dover raccontare una periferia degradata e disumana. E in effetti io me la ricordavo un po’ così. Continuo ad abitare a Settimo torinese, ma non è che la frequenti moltissimo, poiché sono spesso via per lavoro. Fare un film sulla mia “vecchia” città è stata l’occasione per guardarla davvero. E quello che ho visto è una realtà molto meno degradata di quella che mi ricordavo. Quando io ero piccolo, negli anni Sessanta, o quando ero un giovane “impegnato”, negli anni Settanta, Settimo Torinese era una città grigia e violenta. Aveva tutte le carte in regola per diventare una di quelle “banlieue” parigine che di tanto in tanto qualcuno mette a ferro e fuoco. Invece è diventata una tranquilla e, come si diceva una volta, operosa cittadina, con una forte identità, direi quasi con uno stranissimo orgoglio di periferia. Forse dipende dal fatto che ha una fitta rete di strutture solidaristiche, una solida tradizione di sindacati operai insieme a un associazionismo cattolico molto aperto, forse ha avuto amministratori prudenti e oculati, politici non troppo rapaci… Non so, forse significa anche qualcosa che uno dei più grandi scrittori del Novecento, Primo Levi, abbia lavorato a Settimo per tutta la vita… Così oggi questa città è migliore di molte altre. Poi nel titolo del film c’è anche una punta di ironia, ci mancherebbe, perché anche qui i problemi ci sono, e anche belli grossi, come ovunque. Solo la gente non è diventata cattiva. E di questi tempi è un bel risultato.

Oltre a essere regista, Gabriele Vacis è anche architetto: da qui, anche, la sua capacità di “leggere” i contesti urbani e il loro rapporto dis-armonico con il territorio. Crede che in Italia, e in Europa, serva una maggiore coscienza da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’uso, o del consumo, di territorio?
Come architetto, quale direzione si sentirebbe di indicare? E come artista?
Una maggiore consapevolezza sui temi dell’ambiente è sempre auspicabile. Anche perché la sua salvaguardia è indissolubilmente legata ai comportamenti individuali. Abbiamo un bel denunciare i grandi scarichi industriali che provocano il surriscaldamento del pianeta e i conseguenti disastri meteorologici: finché non capiremo che i grandi scarichi industriali servono a mantenere le nostre abitudini di vita sprecona e dissoluta, le condizioni del nostro ambiente continueranno a peggiorare. Tuttavia in giro c’è una crescente disponibilità a consumare meno, a mutare abitudini e comportamenti inutilmente dannosi. Come architetto e come artista mi sentirei, più che dare suggerimenti, di esprimere due speranze: la prima riguarda i comportamenti individuali, spero che le persone imparino ad usare l’automobile il meno possibile, che non facciano scorrere l’acqua mentre si fanno la barba, che spengano la luce quando non sono in quella stanza… E spero che gli architetti costruiscano sempre più case in grado di accogliere questi nuovi comportamenti. Poi spero, come tanti altri, che il nuovo presidente degli Stati Uniti, Obama, continui come ha cominciato.

Per finire, una domanda “tecnica”: gli allestimenti di Gabriele Vacis, architetto e regista, hanno elementi eco-compatibili? Vengono (o possono essere) utilizzati per trasmettere messaggi di sostenibilità ambientale?
Ho sempre pensato che il Teatro debba essere “povero”. Nel senso che un telo di garza evoca efficacemente un lago, come una canna di bambù una foresta. Le scene dei miei spettacoli sono sempre apribili, impilabili, richiudibili in pochissimo spazio. Questo significa che il loro trasporto richiede pochi mezzi. Inoltre nelle tournèe gli attori viaggiano, come nel teatro di un tempo, tutti su un furgone… Adesso sto pensando a uno spettacolo illuminato esclusivamente da luci a basso consumo. Ma tutti questi per me è un elemento di poetica, o forse, meglio, di po-etica.

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