Sacchetto biodegradabile: si è detto tanto, ma non tutto

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Quella del Ministero dell’Ambiente è stata inavvertitamente un’ottima campagna di comunicazione. Si è parlato di sacchetti biodegradabili come mai prima d’ora. Certo, l’intento non era quello di far scoppiare un acceso dibattito sui due cent di costo dei sacchetti al supermercato ma in qualche modo la discussione si è orientata anche verso la sostenibilità ambientale.

Pare che la maggior parte delle persone non abbiano colto l’invito dello scontrino “parlante” (anche perché il Ministero stesso non ha centrato il focus su questo punto), ovvero di come lo scontrino sia in grado di esplicitare il costo separato di un chilo di pomodori dal costo della borsetta. Prima, infatti, il costo della borsa era “annegato” nel costo di frutta e verdura al bancone del supermercato, mentre l’intento di indicarlo come voce separata nello scontrino ha come obiettivo quello di consapevolizzare il consumatore di un costo “evitabile”, così come evitabile sarebbe lo spreco di una risorsa – il sacchetto di plastica – originata sfruttando fonti non rinnovabili (e su questo aspetto torneremo più avanti).

La campagna che si è originata – principalmente sui social – ha prodotto la diffusione di migliaia di immagini di plastica nei mari rafforzando l’idea di quanto la plastica possa diventare dannosa per le nostre acque. Se ci pensate bene, una campagna simile orientata sulle microplastiche, ovvero sui frammenti disciolti della plastica in mare, non avrebbe avuto la stessa portata, sebbene le microplastiche (per non parlare delle nanoplastiche) siano di gran lunga lo stato più avanzato del problema degli inquinanti (peraltro invisibili) nei nostri mari.

C’è un aspetto tecnico interessante che riguarda il termine “biodegradabile”, di cui si è parlato molto poco, probabilmente perché su Facebook – la piattaforma dove maggiormente si è diffuso l’argomento – gli aspetti tecnici terrebbero a bada i leoni da tastiera a scapito dell’intrattenimento. Parliamo della composizione dei sacchetti: come riporta un articolo de ilSole24Ore “I sacchetti ultraleggeri devono essere biodegradabili e compostabili al 100% (cioè a una certa temperatura si devono dissolvere entro un certo tempo negli impianti di produzione di compost agricolo) e devono essere composti da materie prime rinnovabili (vegetali) al 40%, mentre rimarrà il 60% di componente petrolchimica. Nel 2020 dovranno avere almeno il 50% di materie prime rinnovabili enel 2021 il 60% (il resto da petrolio)”. Pochi sanno, quindi, che quando si parla di sacchetto biodegradabile in realtà si sta parlando di un sacchetto di plastica di produzione petrolchimica attualmente al 60%.

Detto questo, come fa notare Fulvio Gatti su Gli Stati Generali, “I social network sono uno strumento potente e finora inedito. Hanno limiti, chiaro: è tutta questione di ridefinire il linguaggio e adattarsi al contesto. La baruffa dei sacchetti di plastica è stata, a mio parere, molto più potente delle altre. Caratteristiche? Semplicità della notizia, immediata identificabilità per chiunque, presenza di simboli. Mi chiedo quello che potrebbe succedere se si trovasse il modo di adattare al linguaggio dei social una battaglia giusta, legata al miglioramento della vita comune. Un argomento in cui ciascuno si identifichi, tragga beneficio senza danneggiare gli altri. Cerchiamola, lavoriamoci, proviamo”. Un argomento già c’è ma probabilmente s’è perso tra le macchinazioni da social: il miglior rifiuto è quello che non si produce! Perciò è ora di tirare fuori le nostre sportine (adesso si può!) e cominciare a fare le scelte giuste per il pianeta…

Maurizio Bongioanni

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