Anche gli italiani sono profughi ambientali

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Non ci sono dubbi: i cambiamenti climatici rappresentano il sintomo più acuto della crisi ecologica in corso. Ma la loro rappresentazione sui media viene ancora derubricata a singoli disastri naturali, apparentemente slegati tra loro e privi di cause scatenanti. Si parla di “maltempo”, o a volte di “fenomeni meteorologici estremi” ma la parola “cambiamento climatico” rimane ancora un tabù, come se fosse tutto “improvviso”, “calato dall’alto”.

C’è poi un altro aspetto che ricade sotto gli effetti del cambiamento climatico ma che viene notoriamente affrontato come un argomento a parte. Parliamo di immigrazione. Ai migranti è riservato un posto di rilievo nelle preoccupazioni della classe politica e nelle narrazioni giornalistiche, con un approccio criminalizzante, come riporta l’Osservatorio di Pavia. Le trasmissioni tv e la propaganda politica si soffermano più sul “rischio percepito” dalla popolazione che sui numeri, alimentando una visione distorta della realtà e giocando a favore di un nazionalismo che fa il pieno di voti basando la propria politica esclusivamente sulla paura.

Pochi soggetti si sforzano di ragionare sulle cause delle ondate migratorie della nostra epoca, sul perché esiste la necessità di abbandonare le proprie terre. Secondo le stime, entro il 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i circa 10 miliardi di persone, con effetti destabilizzanti sulle risorse del Pianeta. Per questo sempre più persone avranno bisogno di spostarsi, in cerca di nuove risorse: sappiamo già che alla base delle emigrazioni attuali non ci sono solo le guerre ma anche il degrado ambientale e la distruzione delle economie locali dovuta al sovrasfruttamento delle risorse, alla contaminazione, agli effetti devastanti del riscaldamento globale.

Probabilmente i cittadini italiani pensano che queste crisi riguardino solamente terre lontane da noi. Non è così: gli “sfollati climatici” ci sono anche qui in Italia. La desertificazione non riguarda solo il Sahara ma anche la nostra Sicilia; l’innalzamento dei mari non riguarda solo le piccole isole del Pacifico ma anche Venezia; il rischio alluvione non colpisce solo il Bangladesh ma anche l’intero territorio italiano; i rischi legati allo sfruttamento delle risorse petrolifere non riguardano solamente il Delta del Niger ma anche la nostra Basilicata. I clamorosi incendi in Val Susa o in Sardegna, le frane in Veneto e in Trentino, i terremoti nel centro Italia e i tornadi nel Mediterraneo: l’Italia è vulnerabile come tutto il resto del Pianeta.

Questi fenomeni colpiscono le popolazioni locali e talvolta danno vita a vere e proprie delocalizzazioni. Prendiamo qualche caso più nello specifico: nel recente report “Crisi ambientale e migrazioni forzate” realizzato dall’associazione A Sud e dal Centro Documentazione Conflitti Ambientale (CDCA) si descrivono i casi di Monterusciello, in provincia di Napoli, e de L’Aquila. La delocalizzazione nelle new-town in seguito a ai due violenti terremoti che hanno interessato queste zone (la prima negli anni ’80, la seconda nel 2009), è a tutti gli effetti un reinsediamento di una comunità, che passa da un contesto a un altro. Tali “migrazioni” sono paragonabili, seppur meno rischiose, a ciò che vivono sulla loro pelle i profughi in cerca di nuove opportunità economiche e di stabilità provenienti dall’Africa. Un’analisi di questi reinsediamenti ci aiuta a capire come l’opinione pubblica ignori l’etichetta del “profugo ambientale”: il caso di Rione Terra  (27.000  abitanti),  ricostruito  in  località  Monterusciello è costata 1,2 miliardi di euro e le attività commerciali del nuovo insediamento non hanno mai iniziato a funzionare, producendo così una sorta di quartiere dormitorio dalle limitate occasioni occupazionali. Una mancanza di pianificazione che si ritrova anche nel trasferimento della popolazione terremotata dal centro de L’Aquila alle nuove case in periferia, mancanza che ha frammentato la rete economica locale e spinto molti aquilani a emigrare in cerca di nuovi posti di lavoro.

Due esempi che portano il report a una conclusione sola: la programmazione di un’eventuale delocalizzazione è un’opportunità a lungo termine che si basa su strategia economica, sociale e anche ambientale: “affinché ciò accada, occorre promuovere politiche programmatiche concordate con gli attori locali, che sviluppino un network tra i cittadini, le associazioni e gli stakeholder al fine di aumentare la partecipazione della comunità locale nel processo decisionale” c’è scritto nel documento. Nei casi fin qui proposti nessuna consultazione con la popolazione locale è stata mai organizzata: magari si sarebbe scoperto che la delocalizzazione non era la sola opzione né tanto meno la soluzione migliore.

Agire localmente e allo stesso tempo collettivamente è il punto cardine della questione: gli Accordi di Parigi prima e quelli di Katowice poi hanno tracciato la linea da seguire ma ancora non si sta facendo abbastanza. Soprattutto in termini di resilienza delle popolazioni locali e del riconoscimento della figura del profugo ambientale. Allo stesso tempo dobbiamo smettere di pensare che le scelte individuali non abbiano un impatto su scala planetaria: scegliere di appoggiare forze xenofobe e di estrema destra è una mossa “anti-ambientale” oltre che “anti-economica”. L’hanno capito bene gli elettori dei partiti verdi bavaresi. È ora che anche in Italia avvenga un cambiamento di questo tipo e la comunicazione ambientale può senz’altro aiutare trasmettendo questo messaggio.

Maurizio Bongioanni

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