Le ferite della barriera corallina e la scomparsa del Lago d’Aral: due facce della stessa medaglia

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di Paolo Ghiga

Il 3 aprile scorso il cargo cinese Sheng Neng 1 della Cosco Group, con un carico di 65mila tonnellate di carbone e 970 tonnellate di petrolio, si è arenato presso la Great Barrier Reef, la Grande Barriera corallina australiana, che si estende per duemila chilometri lungo le coste del Queensland. Contenuta l’iniziale perdita di 3 tonnellate di petrolio con polveri ed agenti chimici, l’alta marea del 13 aprile ha riportato il cargo sulla linea di galleggiamento.
Lo scafo della nave ha creato nella barriera un canale lungo oltre 3 km e largo fino a 250 metri e timori si nutrono anche per le vernici dello stesso, altamente tossiche. Il danno potrebbe essere riassorbito in 20 anni, sebbene gli esperti propendano per la sua irreversibilità, confermata anche dai toni catastrofici utilizzati dalla stampa internazionale. La Great Barrier Reef torna al centro dell’attenzione mediatica, quindi, dopo le rivelazioni della rivista Science, del gennaio 2009, sullo stato di salute della sua biodiversità minacciata dai cambiamenti climatici e la cui crescita sarebbe scesa del 14% negli ultimi 19 anni, rischiando l’azzeramento entro il 2050. Questi dati allarmistici hanno offuscato la speranza alimentata, in parte, dal progetto di monitorazione della barriera risalente ad alcuni anni or sono.
Nel novembre 2007, infatti, Fondazione e Politecnico di Milano, in collaborazione con la Fondazione Torino Wireless e la University of Queensland di Brisbane, hanno realizzato un sistema di monitoraggio per studiare l’evoluzione della Barriera e ogni minima variazione ambientale.
Una serie di boe, connesse tra loro da una rete wireless, trasmettono ad una stazione base, per la successiva rielaborazione, i dati relativi alla temperatura, alla salinità, alla luminosità etc. L’obiettivo futuro è renderne l’impatto ambientale trascurabile mediante la miniaturizzazione delle boe e creando la smart dust (polvere intelligente).

Mentre proseguono le indagini delle autorità australiane, al confine tra l’Uzbekistan e il Kazakistan si consuma la tragedia del Lago d’Aral. Il governo sovietico, alla conclusione del secondo conflitto mondiale, praticò una politica errata di coltura intensiva, deviando il corso dei due fiumi che alimentavano il lago per irrigare i campi di cotone e le aree circostanti e prosciugandone il bacino. Fu l’inizio della sua lenta agonia.
Il responsabile del progetto, Grigory Voropaev, affermò di voler sacrificare, in nome della agricoltura, un “errore della natura”, in quanto il lago disponeva di un’enorme massa d’acqua in una zona estremamente povera di risorse idriche. L’immenso acquitrino creatosi avrebbe permesso una proficua coltivazione del riso. Diserbanti e pesticidi inquinarono i territori limitrofi, mentre l’arretramento della linea della costa di 150 km in 40 anni ha rivelato un cimitero di navi in un deserto di sabbia e sale.
La posizione geografica, l’ evaporazione e i venti che spirano trasportando sabbia contaminata dagli agenti chimici, hanno contribuito all’aumento di gravi malattie respiratorie e renali. Recentemente il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, scioccato dall’attuale situazione, come molte agenzie di stampa hanno sottolineato, ha invitato i governi degli Stati confinanti a superare i vecchi rancori per tentare di salvare almeno in parte il lago salato di origine oceanica.
Un progetto della Banca Mondiale e del governo del Kazakistan portò alla realizzazione, nel 2005, di una diga presso Kokaral, sul lato nord del lago, per far confluire nel Piccolo Aral il fiume Syr Darya. Seppur incoraggianti, tanto che i media lo considerarono quasi un miracolo, i risultati ottenuti non si sono però rivelati sufficienti. Nella parte a sud, che copre i tre quarti della superficie e confina con l’Uzbekistan, si prosegue con la coltura intensiva del riso e le trivellazioni, rinunciando a ogni intervento utile. Le immagini dei satelliti mostrano una diminuzione del volume dell’80% negli ultimi tre anni: il suo destino appare ormai segnato.

Da un lato decenni di errori e incuria, dall’altra una manciata di minuti e una manovra azzardata: come linea di demarcazione del tempo l’uomo, che persevera nella sua presunzione antropocentrica malgrado l’ambiente mostri chiaramente i segni delle sue profonde ferite.

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